La sicurezza urbana non è uno slogan

Venezia ha ormai il triste primato di figurare tra le dieci città più insicure d’Italia.

Per chi vive a Mestre o a Venezia non si tratta certo di una sorpresa: è una situazione che viene da lontano, che si è aggravata di giorno in giorno, senza che nessuno, nonostante i proclami e gli annunci, fosse in grado di intervenire sul serio.

La sicurezza di una città è un fenomeno complesso a cui concorrono moltissimi fattori: quando quell’equilibrio si rompe è difficilissimo ricostruirlo. Non esistono ricette semplici e automatiche: nessuno si illuda.

Abbiamo goduto a lungo in Italia di un modello di vita urbana che molti altri paesi ci invidiavano. Lo sa bene chi ha viaggiato in America Latina, negli Stati Uniti o nelle megalopoli africane. Fino a che, un po’ alla volta, anche le nostre città hanno cominciato ad assomigliare a quelle realtà e a soffrire delle stesse contraddizioni del villaggio globale. Quelle contraddizioni e quei mali sono ormai noti a tutti: immigrazione clandestina, degrado sociale e nuove povertà, tossicodipendenze, turismo di massa. Fenomeni molto diversi, certo, ma che hanno un comune denominatore: lo sradicamento sociale, culturale ed economico di parti importanti delle nostre società e delle nostre comunità. Laddove si coltiva lo sradicamento, la perdita di senso esistenziale, la precarietà della vita, la frustrazione e l’alienazione, crescono a ritmo accelerato violenza e disperazione. Negli spazi in cui queste si insediano si crea un deserto sociale quasi automatico: la qualità della vita di quei quartieri crolla vertiginosamente, il valore degli immobili sperimenta un rapido declino; chi può se ne va altrove, e chi non può si chiude in casa. E il deserto aumenta incontrastato.

Bastano le pattuglie delle forze dell’ordine per contrastare questa situazione? È evidente a tutti che non bastano, anzi se la presenza delle forze dell’ordine non apre a un patto di collaborazione effettivo con i residenti, paradossalmente la situazione di impotenza rischia di aumentare.

Di fronte a questo quadro, nessuno può rivendicare di avere una soluzione preconfezionata. Non bastano i servizi sociali di cura e di assistenza, perché questi hanno tempi lunghi e l’azione preventiva non risponde quando il fenomeno ha caratteri estesi (basti pensare a come si sviluppano e si muovono sul territorio i centri di spaccio della droga che fungono da attrattori della domanda su una scala ben più ampia della singola realtà metropolitana).

Non basta la richiesta del pugno di ferro né l’adozione di misure securitarie dure e pure, quando il proliferare della microcriminalità diventa una estesa condizione di sopravvivenza materiale e psicologica per migliaia di persone, persone per cui il valore della vita propria e altrui si riduce sempre più.

La strada più difficile è quella di un articolato sforzo di ricostruzione di un controllo sociale basato sulla reazione attiva degli abitanti dei singoli quartieri; ma i residenti per agire hanno bisogno di un sostegno quotidiano da parte delle istituzioni, delle forze dell’ordine e di una rete associativa densa che va alimentata e sviluppata. E poi va ricostruita, con misure di sostegno e di incentivo, l’economia dei quartieri: vanno reintrodotti i servizi di prossimità e gli spazi di comunità pubblici e privati (dal patronato della parrocchia alla sezione di partito, dal centro anziani a spazi culturali per i giovani), riconoscendo nella mixité tra etnie e gruppi sociali un valore e non un problema. Queste sono le priorità di investimento in infrastrutture materiali e sociali per il recupero delle vere aree degradate (altro che Bosco dello Sport!)

Insomma, bisogna ripartire da un nuovo patto sociale che metta al centro gli abitanti: questo vale per Via Piave o Corso del Popolo a Mestre, ma vale altrettanto anche per San Marco o Dorsoduro a Venezia, dove il deserto urbano è fatto di maree di turisti facile preda di borseggi, furti, rapine e spaccio.

Non aspettiamoci cambiamenti repentini da questo sforzo di ricostruzione del dialogo tra cittadini e istituzioni; non predichiamo che basterà una campagna elettorale per cambiare ogni cosa: siamo seri, ricostruire il capitale sociale distrutto in decenni di indifferenza, cialtroneria, e corporativismo non è questione di settimane o di mesi.

Ma da questo dobbiamo cominciare a fare, prima o poi. È un dovere morale verso chi soffre il malessere delle nostre città, verso chi cerca risposte serie, verso chi, con senso civico, si è messo e si mette in gioco, anche a costo della vita.

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