Sul Sole 24 ore di domenica 20 agosto è apparsa un’intera pagina dedicata alle iniziative della Fondazione Venezia capitale mondiale della sostenibilità (VSF). Com’è noto, alla guida della Fondazione vi è il politico di lungo corso Renato Brunetta, uscito di recente dall’agone partitico ma per nulla disposto a lasciare la scena pubblica.
A Brunetta e alla sua Fondazione va riconosciuto un indubbio attivismo: la VSF annuncia senza soluzione di continuità una serie di iniziative: il progetto Venezia Città Campus, la Biennale della Sostenibilità, per arrivare proprio in questi giorni all’annuncio di una tournée europea per lanciare dei bond “sostenibili”. Ma di quale sviluppo ha bisogno Venezia?
Soffermiamoci un attimo su quest’ultima iniziativa: un appello a finanziatori nazionali e internazionali a investire su progetti che abbiano come luogo di realizzazione e di impatto Venezia.
A guardare il parterre dei soci fondatori e sostenitori della Fondazione, la raccolta di capitali non sembra cosa poi così difficile. Ci sono praticamente tutti: da Cassa Depositi e Prestiti a Assicurazioni Generali, da Leonardo spa a Eni ed Enel, per non dimenticare Amazon e la Boston Consulting Group. Non possiamo esimerci da ricordare che alcuni di questi proprio “sostenibili” non sono: Leonardo spa macina profitti con una massiccia esportazione di armi; Amazon non brilla certo per rispetto dei diritti dei lavoratori, e forse si potrebbe continuare con alcuni altri soci della VSF.
In ogni caso, le domande che sorgono spontanee leggendo questo annuncio sono almeno due.
La prima, Venezia ha davvero bisogno di capitali per finanziare il proprio sviluppo?
La seconda, ma cosa sono e cosa saranno nei fatti questi “bond della sostenibilità”?
Partiamo dal primo punto. Venezia non ha bisogno di “svilupparsi” ma di un modello di governo che assicuri la salvaguardia del proprio delicato ecosistema, che promuova un’effettiva biodiversità rispetto allo strapotere del turismo e della rendita, che ricostruisca un rapporto equilibrato e nuovo tra azione pubblica e iniziativa privata. Per questo servono certamente risorse, ma ancor prima occorre ridefinire un soggetto di governo, un governo cittadino, ahinoi, ora offuscato, ambiguo, e in forte crisi di democrazia. Chi deve essere l’attore di governo in grado di elaborare e mettere in atto una strategia per salvare Venezia come urbs, come oikos/natura, ma soprattutto come civitas?
I luoghi del governo allo stato attuale sembrano molto confusi: da un lato, il Comune di Venezia e la Città Metropolitana, impersonati dal self-made man Luigi Brugnaro, che persegue interessi di parte e per molti aspetti miopi; dall’altro, i “padroni” della città, ovvero Save, Ferrovie, Porto, i quali si muovono con logiche parziali e a tratti confliggenti; e ancora, la Fondazione di Venezia, chiamata dalla riforma Amato a svolgere un ruolo importante per lo sviluppo della comunità, ma che è oggi solo l’ombra di sé stessa, preoccupata com’è più della propria sopravvivenza che di pensare alla città/comunità di domani.
È in questo vuoto pneumatico che l’ambizioso Brunetta ha concepito e lanciato la sua VSF.
E i cittadini in tutto questo che fine hanno fatto? Nessuno sembra segnalare che dovrebbero essere proprio loro il primo interlocutore e il “fondatore numero uno” di un progetto di governo e di sviluppo della città. Come abbiamo già ricordato, gli stakeholders di Brunetta sono i grandi gruppi finanziari ed economici, non certo i cittadini.
Veniamo al secondo tema: che cosa sono questi bond della sostenibilità?
Come per la stragrande maggioranza delle organizzazioni economiche, vi sono due modi principali di raccogliere direttamente capitali: attraverso la sottoscrizione di azioni o attraverso l’emissione di obbligazioni, ovvero di titoli di debito (debito che va comunque prima o poi rimborsato).
Qualcuno tra i più vecchi ricorderà come il Comune di Venezia si finanziò durante l’amministrazione Costa nei primi anni 2000 attraverso bond emessi e gestiti da operatori internazionali. Ne nacque un lungo contenzioso per il modo in cui questo finanziamento fu sottoscritto e per quanto pesò il servizio del debito sui cittadini veneziani negli anni a seguire. Ma indebitarsi può essere pure una buona cosa, se serve a produrre ricchezza e benessere per l’intera comunità: per questo restiamo, quanto allo strumento, fiduciosi.
Veniamo dunque all’aggettivo “sostenibili”. Parola di gran moda, e in alcuni casi usata a sproposito, ma che nello specifico vorrebbe dire che si sta chiedendo agli investitori privati e pubblici di finanziare i progetti non solo per il rendimento finanziario che ne deriverà ma anche, e forse soprattutto, per gli effetti – auspicabilmente positivi – che quegli investimenti produrranno. Questi effetti si misurano attraverso indicatori (in gergo chiamati KPI – Key Performance Indicators) che sono parte integrante del contratto obbligazionario.
Discutere di questi indicatori non è cosa banale: da questi dipenderà per cosa e come i capitali raccolti saranno utilizzati. Ricerca? Quale? Turismo? Quale? Ambiente? Cultura? Inclusione Sociale? Sia chiaro: non basta commissionare, per quanto bravi siano, a un gruppo di ricercatori e docenti universitari questi indicatori: è all’intera comunità cittadina che queste fondamentali domande vanno assolutamente poste.
In sintesi, i due quesiti si riassumono in una sola grande questione politica. Democrazia e partecipazione sono pilastri insostituibili per immaginare un modello di sostenibilità per Venezia e per la sua Laguna.
Far finta di niente nascondendosi dietro campagne pubblicitarie e nomenclature tecniche non risolve i nodi e i mali di cui Venezia soffre. Anzi, ahinoi, li aggrava.
Occorre ascoltare, e ancora ascoltare i suoi cittadini, per poi deliberare ed agire con trasparenza e onestà: questo l’unico modo di salvare Venezia.